Ultima Luce by Bluebook

Ultima Luce by Bluebook

autore:Bluebook
La lingua: it
Format: mobi, epub
Tags: ebook gratuito - vietata la vendita
pubblicato: 2014-06-06T09:32:41+00:00


27

Vento.

Un vento duro e secco, proveniente dalle distese vuote delle outlands. Soffiava sugli edifici in rovina e sulle strade abbandonate, prendendo Osborn Road d’infilata da nord-est. Faceva oscillare le felci e le erbacce, asciugando le pozze ristagnanti nell’asfalto pieno di crepe. Il boa constrictor se n’era andato. Doveva aver trovato rifugio nella quiete umida e buia nel sottosuolo della No Man’s Land. Perfino per lui l’aria del mondo esterno si era fatta troppo asciutta, troppo ostile.

Prima del Big One, quando ancora esisteva Los Angeles, California, quel vento aveva un nome: Santa Anna, il respiro torrido del deserto del Mojave. Fessurava la terra e portava gl’incendi. Inaridiva la bocca e rendeva gli uomini instabili, pericolosi.

Questo era lo stesso vento. In omni-lan, il gergo delle strade di New Phoenix, il nome era stato storpiato in un’unica parola aspra, dall’intonazione gutturale, dalla fonetica sgradevole. Shadrach.

In inglese tecnico arcaico, significava salamandra, il rettile in grado di attraversare il fuoco. L’alzarsi dello shadrach non era mai un buon segno. Nel cuore della stagione dei monsoni, era un segno di cose maledette a venire. Il vento della salamandra aveva disintegrato la nebbia. Aveva trascinato il cocktail di fluidi mefitici delle aree industriali, degli scarichi di monossido di carbonio e della ricondensazione atmosferica a disperdersi molto oltre la Diga di Herschel. In modo da formare aggregati di nubi livide sulle acque agitate del Mare di Montezuma.

Non c’erano stelle. Ma quella notte non c’era alcun bisogno di stelle. La dilatazione caleidoscopica dell’ecumenopoli riempiva l’intero orizzonte settentrionale, dalla Dam Freeway fino ai contrafforti di Yavapai. L’aria aveva assunto una trasparenza impossibile, come in una qualche percezione iper-definita del reale.

Mi spostai nella penombra fitta che riempiva l’open-space. La mimetica da combattimento era ancora intrisa dell’umidità gelida del bunker dell’ultima luce. Ed era impregnata di sudore, di ceneri degli obici all’alto esplosivo, del sangue del Gruppo Fulcrum. Togliermela di dosso assieme al cinturone fu come uscire da una cappa di piombo.

Giacqui in posizione fetale sul pavimento della doccia a getti multipli anche dopo che il timer ebbe portato i flussi a interrompersi. Due degli ugelli erano difettosi e gocciolavano. Impatti ritmici contro piastrelle bagnate. Onde concentriche in allargamento su un esile strato liquido.

Simili a quelle taighe non reali.

Uscii dalla cabina. Camminai sotto le fruscianti correnti d’aria lanciate dai ventilatori a soffitto, lasciandomi dietro un sentiero di gocce sul pavimento di legno.

Movimento.

Nient’ altro che una variazione nella densità del buio, da qualche parte tra il buio più fitto dietro gli scaffali ricurvi del museo. Forse mi sbagliavo. Forse lo shadrach, il vento della salamandra, il vento nero, stava soffiando anche dentro la mia testa, creando altre ombre. Creando spettri. Il movimento si ripeté, in una posizione spostata verso la scultura lamellare di Ernst Hochman.

L’arsenale era dietro il condotto dell’ascensore. Non ce l’avrei mai fatta ad arrivarci. Così come non ce l’avrei mai fatta ad arrivare alla Colt Dragon rimasta nella fondina. Emergenza. Alternativa difensiva d’emergenza. Strappai il Whinchester-Arasake Avenger, calibro 12 da sotto il piano della scrivania. Lo imbracciai, tolsi la sicura e assunsi posizione di tiro in un’unica spinta rotatoria.



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